Il dolore ci ricorda quanto siamo vivi ed è fondamentale per la crescita dell’uomo.
Viviamo in una società che tende ad allontanarci – ad evadere – dall’esperienza del dolore.
Queste sono le premesse con cui mi accingo a fare alcune riflessioni in merito al film “Fight Club” (USA, 1999) di David Fincher.
Il dolore fisico ci dà impedimento nelle relazioni, da cui nasce anche la sofferenza per questo limite, al quale tentiamo di dare forma nella sua pratica di cura. Il dolore non va inteso solo come fisico ma anche mentale: in tal caso è la persona stessa che ha difficoltà a relazionarsi con gli altri. Ritroviamo una circolarità tra il fisico e il mentale, dato che qualsiasi dolore fisico rompe una relazione, in quanto si crea una disarticolazione della mente che fa sviluppare degli impedimenti nella relazione.
E’ comprensibile, allora, che il dolore sia un’esperienza individuale, che isola e mette alla prova; è un’esperienza che ci consente di decidere se accettare o meno la prova. Da qui, dal dolore come esperienza tramite qui proviamo, possiamo trarre molte risorse.
Con questo non intendo il dolore “come un bene”, ma in quanto esperienza che ci mette alla prova ed essendo una potenziale risorsa da cui trarre nuove capacità, il dolore andrebbe vissuto attivamente: non riercandolo, ma affrontandolo e facendo tesoro di ogni esperienza di dolore che inevitabilmente si presenterà lungo il cammino di ognuno.
Anche se non sempre accade che il dolore possa apportare arricchimento, è il caso in cui si perde ogni forza di vivere, quando non si hanno le capacità per affrontare il dolore stesso; in tali casi, quando cioè non si comprende una determinata esperienza del dolore, nasce il bisogno di un aiuto esterno.
Comprendere il dolore aiuta a prendersi cura si sé stessi: capire i propri limiti, amministrare la propria finitezza è fondamentale per superare il proprio dolore e aiutare l’altro.
Nella società odierna, solitamente, quando qualcuno necessita di aiuto lo si soccorre delegando l’aiuto a luoghi estranei – cliniche, ospedali, case di cura ecc.. Non delegare a luoghi estranei, ma farsi carico del problema altrui fa si che il “vantaggio” (dell’aiuto esterno) venga sviato a favore di chi aiuta, che è riuscito a comprendere prima di tutto il proprio dolore fino ad acquisire le capacità per aiutare ad affrontare il dolore altrui.
Trovo molto stimolante prendere ad esempio i bambini: un bambino che non riesce ad amministrare il proprio dolore, in quanto ogni volta che prova dolore gli sembra di perdere tutto, non avendo alcun metro di paragone. Questa totale sensazione di perdita – che è la cosa più drammatica della vita – che vive il bambino gli permette di avere l’amministrazione della propria finitezza, in maniera più sviluppata dell’adulto, avendo il vantaggio di non avere “vantaggi” secondari.
Questo confronto, tra il bambino e l’adulto, è emblematico del punto che vorrei mettere in rilievo.
Crescendo l’uomo contemporaneo perde la consuetudine alla lotta, non si affronta più, non cerca di trarre nuove capacità dall’esperienza del dolore, non si mette più alla prova; si abitua man mano ad altre cose (distrazioni, consumi, “vantaggi”…), rifugge da se stesso, e ripone il proprio dolore negli altri, o in altre cose e non c’è da sorprendersi se la depressione è una delle malattie che più caratterizza la società odierna.
La depressione è la conseguenza di una società fondata su un sistema che nega il bisogno dell’individuo di vivere la propria soggettività e di affrontare il proprio dolore senza rifuggirlo perennemente, nella misura in cui lo condiziona a riversare le proprie angosce, le proprie paure, il proprio dolore su beni materiali o d’intrattenimento che vengono a configurarsi con quei vantaggi suddetti.
“Il dolore ci richiama alla fine”, il dolore è paralizzante, ci impedisce di pensare; la medicina si prende cura del corpo ed evita che la mente “si preoccupi” o pensi. La medicina occidentale odierna è la medicina della tecnica, che non si prende cura del danno e non bada al senso che gli è attribuito dal soggetto. La medicina si prende cura di un corpo che oggettivato non ha più senso, in quanto un corpo che non pensa smette di essere uomo e diventa sempre più cosa, si “cosalizza”.
E’ solo nel dolore che l’uomo concepisce la differenza tra cose ed uomini, in quanto si emancipa dalla cosa, facendo esperienza del dolore. Dal danno l’uomo trae un senso, che scaturisce dalla scomparsa del dolore: il senso è la conseguenza del dolore in quanto vi emerge il vissuto soggettivo del dolore, che è dato dall’impedimento. L’uomo può tollerare il dolore in quanto può attribuirgli significato in senso positivo, altrimenti il dolore avrebbe il carattere negativo e paralizzante che si attribuisce alla perdita.
Il dolore – esperienza tipicamente umana – problematizza il nostro essere al mondo: quanto più daremo senso al danno, tanto più aumenteremo la nostra esperienza (in quantità e qualità), diventando più abili e capaci.
L‘esasperazione di questo discorso, rappresentato superbamente, con molte altre sfaccettature, nel film “Fight Club”, di David Fincher – tratto dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk – che, con una forte capacità comunicativa, il film porta all’esasperazione il concetto del dolore. Ovvero il doversi affrontare senza ripiegare sulla compassione – che non è data dalla vicinanza ma dalla fuga dal dolore altrui, così come la medicina solo attraverso la distanza si prende cura del danno – o altri “vantaggi”, ma al contrario affrontare e addirittura ricercare il dolore stesso, per sconfiggere la paura della morte, l’unico modo per “prendere coscienza” dell’inevitabilità della morte stessa.
Nella seconda parte del film il discorso si sviluppa su un piano più ampio, quello sociale; inizia con la fuga dell’uomo contemporaneo – “sottoprodotto di uno stile di vita che ci ossessiona” – dal proprio dolore. Il protagonista, in una fase di smarrimento è spinto verso un’unica via d’uscita, la creazione di un’altra personalità che gli consentirà di distruggere ogni legame con i “vantaggi” acquisiti, fino alla perdita di ogni certezza.
Affrontare il dolore nella maniera più cruda e diretta, il Fight Club, con una soluzione che mira all’autodistruzione in risposta ad una società che impone uno stile di vita fondato sull’”automasturbazione come miglioramento”, fino a ritrovare il senso della perdita – “solo dopo aver perduto tutto siamo liberi di fare qualunque cosa” – per un ritorno dell’uomo alla sua essenza, dove la redenzione dell’umanità passa per l’abbandono di ogni speranza.
Il film, come il romanzo, cerca una risposta alla nostra società, che ci illude di essere speciali per non farci pensare. E la trova in un messaggio tanto provocatorio quanto emblematico di quanto detto finora, partendo dal rivoluzionamento della società che nasce dal risveglio dell’individuo, il film indagando sul profilo psicologico del/dei protagonista/i giunge alla conclusione che il cambiamento può attuarsi con l’esasperazione del vivere (l’esperienza del dolore), e di un “lasciarsi andare” che si avvicina alla follia, una provocazione che risulta la componente essenziale per il cambiamento e per affrontarsi con estrema lucidità.
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