Il film in corso di realizzazione grazie al crowdfunding intende descrivere i sogni interrotti di un’intera generazione, partendo dall’esperienza di una giovane operaia. Intervista all’antropologo e regista Parsifal Reparato
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Nimble fingers, letteralmente “dita agili”, è molto più che una caratteristica fisica. Affonda le sue radici in uno stereotipo vietnamita e non solo, che vede la donna come più dedita al lavoro duro e, di conseguenza, allo sfruttamento. Non è dunque un caso se Parsifal Reparato ha deciso di chiamare così il proprio film documentario, ancora in fase di realizzazione e finanziabile grazie ad un progetto di crowfunding. Il giovane antropologo, classe 1985 e particolarmente interessato al tema del lavoro, ha così avviato ad Hanoi una ricerca sulle fabbriche del territorio e sulle condizioni degli operai. Attraverso il documentario, ha deciso di partire dai sogni della protagonista Bay, giovane operaia che con la sua esperienza riflette le aspirazioni di un’intera generazione.
Una ricerca, quella di Parsifal, che va collocata nel quadro dei cambiamenti vissuti dal Vietnam negli ultimi trent’anni. Più precisamente dal 1986, anno in cui il varo della riforma economica Doi Moi ha sancito di fatto l’abbandono di un’economia socialista a favore di un’economia di mercato. Se prima, con lo schema del VAC voluto da Ho Chi Minh, l’assetto socio economico del Paese era fondato esclusivamente sull’agricoltura e sulla produzione interna di beni alimentari — al punto tale che ogni famiglia era autosufficiente —, l’apertura al mercato globale e l’avvio dell’industrializzazione hanno cambiato rapidamente la geografia del Paese. Le campagne ora non godono più dello stesso mercato di una volta, e questo ha causato un esodo a favore delle città, spesso sovrappopolate.
Parsifal, prima di iniziare questo film, faceva tutt’altro lavoro: dopo la laurea in antropologia, aveva trovato impiego nel management di una grande multinazionale. Ma dopo il suo primo viaggio in Vietnam, ha capito subito che la sua strada era un’altra. Proprio come lui, che in Italia stava soffrendo perché non faceva il lavoro dei suoi sogni, anche lì i giovani sono pieni di speranze e sogni non realizzati. Così ha provato ad immaginare quali fossero le prime “vittime” della forte industrializzazione che il Vietnam sta vivendo. E ha deciso dunque di imboccare un’altra strada, tanto incerta quanto appassionante. Lungo il suo cammino ha poi incontrato Pietro Masina, un docente che fa ricerca in Vietnam su questioni relative ai diritti degli operai e dei lavoratori. Così, dopo la lettura di alcuni testi da lui consigliati, ha finalmente focalizzato il tema della sua ricerca: le operaie.
Perché questo nome, Nimble fingers, e perché proprio le donne?
La percentuale di donne che lavorano nelle fabbriche è altissima. Mi sono quindi chiesto perché i manager preferissero le donne, e man mano che le ricerche andavano avanti la risposta era sempre la stessa: prima di tutto, le donne erano più agili con le dita (da qui il nome, Nimble fingers), ma poi a partire da lì si sviscerava tutto uno stereotipo legato alla figura femminile come più adatta al lavoro duro, più perseverante, poco incline a ribellarsi e facile da gestire. Le donne lavorano tantissimo, e come in quasi tutte le industrializzazioni (anche nella nostra) sono sempre state tra i lavoratori più sfruttati. Ma qui la situazione è un po’ diversa, perché se da noi il capitalismo ha portato in qualche modo a delle lotte sociali, in Vietnam il conflitto è completamente assente e le donne ne sono le prime vittime. C’è un senso di insoddisfazione palpabile, c’è frustrazione e molto dolore, ma non c’è un’organizzazione di classe, e si sente la differenza. Proprio in queste settimane abbiamo interrotto le riprese per continuare la ricerca sul campo presso gli stabilimenti industriali stranieri in Vietnam, assieme al gruppo di ricerca del professor Pietro Masina — che è anche il coordinatore del progetto di ricerca europeo e vietnamita sui diritti degli operai — e a Michela Cerimele, coordinatrice del lavoro di campo nonché una delle autrici del libro Fiat Nuova Panda schiavi in mano (edito Derive Approdi).
In che modo la lettura di questa realtà ci aiuta a capire quella italiana?
È un collegamento che in realtà è parte integrante del mio percorso personale. Quando ho iniziato a fare questa ricerca ho tentato di partire con meno pregiudizi possibili. Prima di tutto, ho cercato di prendere contatti con le aziende italiane, visto che mi stavo documentando anche sulle condizioni degli operai nelle fabbriche italiane in Vietnam. Sono partito da lì per ovvi motivi, ma poi sono finito anche sulle fabbriche giapponesi, e mai nessuno mi ha voluto far entrare negli stabilimenti. All’inizio sono tutti molto disponibili, poi appena parli di operai ti si chiudono le porte. Da lì ho iniziato semplicemente a fare quello che so fare, visto che sono un antropologo, e ho iniziato a frequentare i dintorni del parco industriale di Hanoi. Se riuscire ad entrare nelle fabbriche è sempre rimasto un impedimento, con gli operai non ho avuto nessun problema di comunicazione. Ho abbandonato il mio lavoro per tentare di raggiungere dei sogni, nel mio caso la passione per la ricerca e per il film-documentario, e l’ho fatto cercando chi dall’altra parte del mondo i suoi sogni li stava perdendo piano piano, come li stavo perdendo io. Ciò che lega l’Italia al Vietnam a mio parere è proprio questo, oltre ad un’”antica” storia di solidarietà tra la classe operaia italiana e il popolo vietnamita in lotta contro gli invasori USA. La nostra è una generazione figlia di un tempo che non ci permette di raggiungere i nostri sogni, quantomeno quelli per cui ci siamo formati e abbiamo studiato. Ovviamente i giovani operai, nella maggior parte dei casi, non hanno potuto studiare all’università, però hanno comunque delle ambizioni come noi che non possono raggiungere perché assoggettati a delle logiche di mercato che ci portano a prendere la prima offerta lavorativa che ci capita, e io stesso ho fatto così appena uscito dall’università. Qui ho trovato più solidarietà con chi non parlava la mia lingua che con chi era italiano come me, aziende in primis. Sono nate amicizie e siamo riusciti a trovare un linguaggio comune, accomunati dalla frustrazione di non poter vivere i nostri sogni e di non poterli raggiungere, ed è proprio questo che ci ha legato.
Passiamo al film. Chi è Bay, la protagonista?
Tramite il gruppo di ricerca italo-vietnamita ho frequentato i sobborghi industriali e i quartieri dormitorio dove vivono gli operai ad Hanoi, periferie che non sono né città né campagna. Qui abbiamo iniziato la ricerca sottoponendo dei questionari, e durante questa fase di interviste ho conosciuto molte operaie, tra cui anche Bay. Con lei è nata subito un’affinità, anche se all’inizio era molto scettica e quasi spaventata da me! Poi piano piano abbiamo stabilito un rapporto di fiducia e mi è stata molto d’aiuto per il lavoro di ricerca. Da lì si è sviluppata un’amicizia e anche Nimble fingers.
Come stanno andando le riprese e il progetto di crowfunding?
Fino a maggio ho svolto gran parte del lavoro da solo, seguendo Bay con la cinepresa e rendendola partecipe di cosa avevo in mente. A me piace dire e pensare che il film è in qualche modo condiviso, nel senso che Bay ad un certo punto è stata resa partecipe di tutto quello che avevo girato e di come avevo sintetizzato i dati raccolti su di lei. Le ho chiesto spesso cosa ne pensava delle mie interpretazioni e se le ritrovava nella sua realtà. Dopodiché ho lanciato la raccolta di crowfunding, per vari motivi. Quando sono arrivato lì la prima volta mi aspettavo di avere a che fare molto di più con miei coetanei, quindi con ragazzi quasi trentenni, e invece mi sono trovato di fronte a persone a malapena ventenni. Sono dunque intervenute esigenze di regia diverse, ho avuto bisogno di ingaggiare una troupe che riprendesse anche la mia amicizia con Bay, visto che la mia esperienza personale è centrale nel film. Sponsor non ne sono arrivati, nonostante il risalto dato al film dal progetto europeo di ricerca, dunque il crowfunding è vitale per far lavorare la troupe. Abbiamo quasi girato tutto e spero di finire nelle prime settimane di luglio, in modo da passare poi al montaggio.
Hai già dei progetti per questo film?
C’è tanto lavoro di ricerca dietro ed è importante farlo conoscere, però quello che voglio davvero è che il film sia fruibile anche ai ragazzi, così come ai lavoratori. Per questo ho tentato di utilizzare un linguaggio più semplice possibile e di semplificare il più possibile anche la ricerca stessa: nel mio piccolo, l’intento è quello di contribuire a far sì che si torni a parlare di lavoro e di operai, in Vietnam come in Italia. Spero che abbia una buona visibilità nei festival e una massima diffusione, perché arrivi un messaggio forte ben preciso dettato dall’esigenza di parlare di lavoro da un lato all’altro del mondo, al di là dell’impegno che ci ho messo per la regia e le ricerche. Il mondo che stiamo costruendo è palese: ci sono ricchi e poveri, padroni e schiavi. Parlando di questo vorrei che si capisse che ci dobbiamo schierare in qualche modo, dobbiamo parlare di queste cose e prendere posizione.
Per sostenere il progetto Nimble fingers, qui il link
[Foto e video di Parsifal Reparato]
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