Studiare il lavoro, il conflitto capitale/lavoro, raccontare i lavoratori, questa probabilmente era la passione che animava Giulio Regeni. Probabilmente il coraggio di cercare la verità, il coraggio di seguire le proprie passioni e le proprie ragioni lo ha portato alla morte. Non conoscevo Giulio, non conosco nulla delle dinamiche inerenti il suo omicidio, se non ciò che hanno riportato i media nelle ultime ore.
Ma non posso fare a meno di dedicare un pensiero a questo compagno, non posso esimermi dato che poco tempo fa ero dall’altra parte del mondo a raccontare la vita delle operaie di un paese del Sud Est Asiatico, ed oggi mi trovo in Argentina a raccontare gli abusi e le speculazioni che vivono i cittadini delle periferie urbane.
Chi fa questo lavoro, quello di ricercare la verità, quello di volerla raccontare – con la ricerca, con un articolo, con la testimonianza diretta da militante, con un film o con un libro – si assume il rischio di ciò che vuole raccontare, si assume il rischio di perdere la vita, perché la voglia di verità è desiderio di libertà, e per qualcuno questa è ancora una ragione per cui vale la pena vivere e morire. Essere liberi vuol dire avere il coraggio di seguire le proprie idee, vivere in maniera coerente con i propri principi.
Non conoscevo Giulio, ma dal suo percorso lavorativo, dal suo articolo capisco che era un compagno con le idee chiare su ciò che voleva fare, non era un giramondo, un ingenuo o uno studente sprovveduto ma una delle persone che ci permettono di non morire ogni giorno in un silenzio assordante.
La morte di Giulio è ovviamente motivo di riflessione sul tipo di lavoro e la vita che scelgono di vivere persone come lui. Mi sono domandato ancora una volta se valga la pena fare questo lavoro – nel mio caso quello di documentarista e ricercatore: un lavoro che mette spesso a rischio la propria vita per molteplici ragioni, un lavoro che non permette alcuna prospettiva certa sul futuro, un lavoro che economicamente non è mai adeguatamente riconosciuto, quasi sempre un lavoro a nero, un lavoro che le istituzioni del mio Paese (lo Stato, i giornali, le televisioni, le produzioni…) non tutelano, anzi lo mortificano ogni giorno, un lavoro in cui spesso ti ritrovi da solo con le tue forze. Affrontare queste difficoltà non è da pazzi sprovveduti, ma significa avere il coraggio delle proprie idee e di farle diventare azione.
Giulio Regeni aveva trovato la chiave per occuparsi dei lavoratori, dei sindacati, stava approfondendo con cura il conflitto tra capitale e lavoro nel Paese in cui Al-Sisi, il generale che ha assunto il governo del Paese con un colpo di stato, oggi è un prezioso alleato del governo italiano. L’Egitto da anni è animato da una vasta ondata di scioperi, di cui Giulio aveva capito che si trattava di una «realtà molto significativa» in grado di mettere in crisi la «trasformazione neoliberista» del Paese e rompere «il muro della paura» del sistema autoritario e repressivo messo in piedi dal governo. Il giovane dottorando era emigrato da tempo per riuscire a portare avanti la ricerca, evidentemente scomoda a molti, non solo al governo Egiziano, ma sicuramente anche a quello Italiano che vede nei lavoratori un temibile nemico da tenere a bada e ben nascosto.
La capacità di analisi di Giulio, il coraggio di andare oltre la paura di essere emarginato e soppresso da un sistema di potere che non vuole più sentir parlare di lavoratori organizzati, il coraggio di affrontare il rischio di pubblicare un articolo scomodo mi dà una ragione in più per continuare a coltivare il lavoro della mia vita ed essere consapevole che cercare la verità e far bene il proprio lavoro oggi può costare la vita.
Ma vale la pena spendere ogni giorno della propria vita per coltivare le proprie idee e metterle in atto. Ora sta a noi raccogliere i frutti del lavoro di un compagno e cercare la verità che hanno voluto far tacere.
A pugno chiuso,
Ciao Giulio!
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