Il lavoro svolto per Nimble fingers è stato accompagnato dal metodo etnografico. Oggi, con AntropicA, abbiamo fatto di quel metodo una bandiera.
Qui l’intervista realizzata da Ines Jeune Fille Arsì per Teatrionline!
Abbiamo intervistato l’autore del film documentario “Nimble fingers” che tocca il tema dello sfruttamento delle lavoratrici nell’industria tecnologica in Vietnam
Antropologo, giornalista, regista e direttore della fotografia, Parsifal Reparato è nato a Napoli, dove ha svolto anche i primi progetti di ricerca, per poi avventurarsi nel mondo con il suo incredibile talento di osservatore e la passione per il metodo etnografico che connota tutto il suo lavoro di indagine documentaristica.
Già in principio, nel 2011, con Mas alla de la Santería, dedicato al tema della prevenzione dell’HIV e alle pratiche terapeutiche nella Santeria cubana, sceglie di affrontare in profondità temi estremamente complessi, zone di criticità, fenomeni di trasformazione che gli sono valsi presto premi e riconoscimenti. Racconta la biodiversità, le scelte di vita alternative alla città, le miniere, i paesi socialisti ed ex-socialisti e il tema dell’economia globale. Nimble fingers, un film sulle operaie migranti nelle fabbriche dei più grandi marchi dell’elettronica mondiale in Vietnam, testimonia anche una scelta di vita e un cambiamento di rotta personale molto significativo. Ha pubblicato saggi sulle seconde generazioni di immigrati a Roma e sull’integrazione Mandinga in un quartiere napoletano.
Il suo sguardo lucido e privilegiato merita certamente uno spazio d’ascolto e lo abbiamo intervistato per voi.
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Parsifal Reparato, come nasce la sua passione per la ricerca antropologica sul campo?
Ho una formazione da antropologo, sono laureato in antropologia e la ricerca sul campo è imprescindibile per l’indagine di tipo antropologico e la prospettiva antropologica; quindi la ricerca etnografica è la base da cui partire, il metodo attraverso cui un antropologo indaga. La passione per la ricerca sul campo nasce dalla passione per la ricerca di una verità, la mia verità che incontri solo sul campo, riuscendo a interpretare o avendo una chiave interpretativa. Puoi avere una chiave interpretativa autentica solo andando ad indagare di persona l’oggetto di studio. Può essere una domanda, un’idea, un obbiettivo da sviscerare. Il metodo che faccio mio e che mi batto, da tempo, per fare proprio anche del cinema-documentario è quello della ricerca etnografica; quello del diario di campo è un metodo che sento molto vicino alle mie corde, al mio tipo di formazione perché aiuta a entrare nel profondo dei temi che si affrontano.
Napoli, la città in cui è cresciuto, è un crocevia di culture. Come ha influito sulla sua formazione?
A Napoli ho vissuto sin dall’infanzia; non la prima infanzia, vissuta a Reggio Emilia, in realtà. Però tutto il periodo di formazione scolastica, fino ai 19 anni, l’ho vissuto a Napoli, una scuola di vita. La si ama e la si odia. Provengo dal quartiere Sanità e poi mi sono trasferito vicino alla stazione, luogo più multietnico della città, in cui ho svolto anche la mia prima ricerca, per la tesi triennale, sull’integrazione della comunità mandinga in questo quartiere napoletano. Ha influito tanto, ha influenzato la capacità di mescolarsi, la capacità di confrontarsi quotidianamente nelle cose più piccole e più grandi con l’altro. Napoli è inevitabile, sia dal punto di vista interculturale, sia dal punto di vista interclassista, quindi ci si intreccia. Napoli ti invita a incontrare l’altro e ti spinge a capire chi è l’altro. Come tutti i luoghi di origine di ognuno di noi, ha influito molto sulla mia formazione. Poi, la potenza espressiva che è propria di quella città, per la sua conformazione geografica, topografica, è significativa.
Il suo documentario, Nimble fingers, è una preziosa raccolta di testimonianze, una cronaca in grado di avvicinare spettatori occidentali, assolutamente ignari, al duro lavoro nel settore dell’industria tecnologica e alle condizioni di vita che comporta. Ci racconta come è nato questo progetto e perché?
Il documentario è uscito nel 2017 e adesso è stato finalmente distribuito on line ed è più accessibile a tutti. Il progetto nasce da un intreccio di varie circostanze, come tutti i progetti complessi. In primo luogo nasce dal fatto che ho scelto di andare in Vietnam; lavoravo per una grande multinazionale come manager in formazione e dalla frustrazione che provavo nell’essere un dipendente di una grande multinazionale, nata dall’incapacità di realizzare i miei sogni per guadagnarmi da vivere, mi sono iniziato a chiedere dei lavoratori che producevano, dall’altra parte del mondo, le magliette che portavamo addosso. Il primo lavoro lo avevo svolto a Cuba e il filo rosso con il Vietnam è facile da ricostruire. C’era quindi una frustrazione e un sogno. Il sogno di andare a vedere che ne era del Vietnam, come ero andato a vedere che ne era di Cuba. Il grande desiderio di vedere il Vietnam era legato all’immaginario che ha rappresentato nella mia formazione di coscienza politica, di indipendenza e di resistenza, di un Davide contro Golia, come lo è stato Cuba. Così feci un viaggio in Vietnam e mi innamorai di questo paese prevalentemente agricolo, con delle montagne bellissime, che si stava trasformando molto velocemente; il grigio delle fabbriche stava invadendo tutta quella vegetazione lussureggiante. Da quel viaggio nacque la voglia di indagare cosa stava succedendo in quel paese e decisi di fare un progetto incentrato su questa industrializzazione, su questa nuova economia di mercato che stava trasformando il Vietnam. Nelle ricerche scoprii che i lavoratori erano per la maggior parte donne e la donna risultava un essere perfetto per lo sfruttamento in fabbrica. Volevo scoprire chi erano queste donne, chi erano i miei omologhi dall’altra parte del mondo; giovani come me come stavano vivendo, destinati a lavorare per una grande multinazionale, vedendosi espropriare la forza del proprio lavoro. Così è nata l’idea di lasciare il lavoro sicuro che avevo, ma frustrante, per realizzare questo progetto.
Quali sono le doti essenziali per costruire un documentario sul campo?
Una domanda ardua a cui non so se posso rispondere. So quali sono le qualità che io ritengo utili per costruire una buona ricerca di campo, utili anche per il documentario. Posso parlare del mio metodo etnografico, ma qualche altro antropologo riterrà forse utili altre metodologie. Ho fondato proprio un’ associazione, AntropicA, che nasce per unire antropologia e cinema e del metodo ne fa una bandiera. Per costruire un campo di ricerca e creare un documentario ci deve essere una passione e un’idea da cui partire; il metodo stesso, poi, richiede una partecipazione sul campo e il campo lo si affronta creando connessioni, con creatività, riuscendo a osservare e appuntare quanto più possibile, soprattutto all’inizio, quando c’è uno sguardo più fresco, più giovane. Per questo amo partire, viaggiare, per realizzare progetti; ritengo che fare documentari sotto casa, molto spesso, è più difficile perché la ricerca richiede occhio fresco, occhio vergine. Molte cose che vediamo tutti i giorni ci creano abitudine e finiamo per trascurare molto; affrontare, invece, conoscere una comunità da zero, ti permette di costruire una rete di significati da zero e quindi tutto quello che ti impatta crea significati da zero. Dunque, è più facile costruire delle narrazioni e qualunque cosa incontri crea degli spunti per poter ragionare, indagare le proprie emozioni, si è più aperti ad accogliere tutto ciò che si incontra. La prima cosa è scrivere molto, scrivere un diario di campo, in gergo; in questo diario si appuntano molte cose, si parla di prime impressioni, informazioni ricevute da passanti, gente incontrata qui e lì, appunti presi da osservazioni, collegamenti improvvisi che la nostra mente fa, perché anche il nostro immaginario ci serve per costruire narrazioni e tessere una rete di significati. Man mano questi appunti ci permettono di immagazzinare informazioni e concettualizzare e questo permette, rileggendo, di creare ulteriori connessioni, riuscendo a stabilire nuovi contatti sul territorio. Ogni cosa può aiutarti a stabilire una linea narrativa che può partire da degli elementi. In Nimble fingers, per esempio, ho iniziato a seguire il fiume. C’è un’immagine nel film che è quella dello svuotamento del barcone che arrivava dal fiume, carico di sabbia. Questa sabbia era scaricata a terra per produrre il cemento che ad Hanoi serve per costruire. Quello era l’emblema di quello che stava accadendo. Si svuotavano le montagne e i fiumi per portare materiali in città e trasformarli in cemento. E proprio la trasformazione materiale è il simbolo di cosa stava accadendo. Perciò ho iniziato a seguire l’acqua e ho scritto tanto sull’acqua, come elemento che mi stava guidando. Da questa intuizione ho creato una serie di relazioni e significati, seguendo il flusso dell’acqua al contrario, per poi arrivare sulle montagne. Quindi c’è tutto un viaggio messo al servizio dell’obiettivo che volevo raccontare e che era il lavoro. Dietro c’è tanta ricerca che è stata possibile grazie al metodo etnografico che ti permette di creare tantissime connessioni e di metterle al servizio del film. Nell’ambito del cinema-documentario il metodo della ricerca etnografica fornisce input fondamentale nella realizzazione di un’opera.
Quanto influisce la presenza dell’osservatore sul campo che vuole indagare?
La presenza dell’osservatore è fondamentale e influisce molto sul campo di ricerca, a differenza di quello che si intende, spesso, in Italia, dove è visione comune si tratti sempre di osservazione da safari, da lontano. Il documentario d’autore è un documento di creazione; la presenza della macchina da presa, e quindi dell’osservatore, è una chiave che connota tutto il lavoro che viene realizzato. Ci rifacciamo all’esigenza di raccontare l’incontro che c’è tra la macchina da presa e l’altro, secondo quella tradizione di Jean Rouch ed Edgar Morin che definì lo stile di regia del cinéma vérité, inteso come verità sull’incontro, invece di una verità assoluta o innegabile. Quindi tutto il progetto diventa il frutto di una negoziazione tra il regista, ricercatore e il soggetto indagato. Questa continua negoziazione crea una relazione significativa da cui traiamo dei significati. Da ogni incontro nasce una relazione significativa che permette si possa recepire un flusso di informazioni. Ovviamente le emozioni sono una parte fondamentale delle relazioni ed è anche questo il bello di fare cinema-documentario, perché si lavora con le proprie emozioni e quelle degli altri e si fa uno sforzo, nella volontà di impegnarsi con un altro mondo, con un altra vita o con un’idea, per usare l’esperienza, cercare di afferrarla, di trovare i significati evocati durante l’incontro. Lì si crea quella magia, quella verità e avviene anche un sovrapporsi di sguardi, dove interviene la capacità di comprendere una visione, farla propria e riraccontarla attraverso il proprio canale espressivo. Se c’è una verità è la verità dell’interazione che avviene in quel momento. Nel film è ovvio che è stato condizionato dalla telecamera e che il ricercatore funge da catalizzatore di eventi; ha la funzione di far scatenare certi eventi che arrivano allo sciogliersi della ricerca. Si crea una nuova realtà, non parallela o falsa, ma è la verità su quell’incontro, fortemente connotata da chi osserva e chi racconta.
Lei è anche un giornalista. Questo le permette di unire ricerca a inchiesta?
Sicuramente anche come giornalista mi avvalgo del metodo di ricerca; anche gli strumenti per avanzare con le inchieste si mescolano e rende unico, il lavoro di ognuno di noi, il percorso di formazione che ci accompagna. La capacità di portare avanti un’ inchiesta, elaborare domande, saperle porre anche e metterle al servizio di un determinato fine, permette di apportare un valore aggiunto alla ricerca.
Il suo lavoro sembra voler sviscerare tematiche di complessa criticità che, ad oggi, sviliscono ancora la dignità dell’individuo. Si tratta di un atto di denuncia? Della precisa volontà di sensibilizzare l’opinione pubblica?
Rispondo a caldo. Il progetto vuole sviscerare tematiche che vanno a svilire la dignità di alcuni lavoratori o che tentano di attentare alla dignità delle persone e la ricerca parte dall’esigenza di denunciare e raccontare queste storie. La volontà decisiva di raccontare, anche attraverso le animazioni, e utilizzare il cinema come strumento per avvicinare lo spettatore, l’umanità, alla bellezza che fa il cinema. Nasco come direttore della fotografia, ho studiato anche fotografia e credo che chi voglia fare cinema lo debba fare con rispetto alle immagini che sceglie di utilizzare, per portare avanti una narrazione. Quindi, facendo attenzione alla fotografia come strumento chiave per poter esprimere la necessità della bellezza, inevitabilmente si sensibilizza al tema che stiamo osservando. Chi guarda una bella immagine riuscirà più facilmente ad empatizzare col tema che sto raccontando. Questo lo fai cogliendo la capacità artistica e poetica del cinema. Chi è interessato a quel tema può essere catturato dal messaggio che il film sta mandando. La precisa volontà non è solo quella di arrivare all’opinione pubblica; nel montaggio ne abbiamo discusso molto, abbiamo discusso delle animazioni del film, frutto di un laboratorio affrontato con le lavoratrici, che sono diventati veri laboratori politici in cui si è ragionato su cos’era la catena di montaggio e su cosa si fa in fabbrica, ma anche su quali erano i sogni personali, desideri, paure. La domanda che ci siamo posti, alla fine delle riprese, era se volevamo raccontare la catena di montaggio dei prodotti che andiamo a comprare in negozio e quindi responsabilizzare il cliente su quanto esiste dietro alla produzione, o se volevamo dire altro. Io volevo dire altro, perché lo sappiamo tutti cosa c’è. Tutti sappiamo il metodo di sfruttamento che c’è dietro a un qualunque capo di abbigliamento o prodotto di elettronica. Il sistema è quello. Mi interessava restituire qualcosa alle protagoniste. Mi sono innamorato di quel senso di denuncia dell’ingiustizia di cui parlavo prima. Il desiderio era voler trovare una possibilità di sognare la bellezza, la possibilità di immaginare attraverso il cinema. Le animazioni erano uno strumento che, da atto di denuncia contro la censura perché non potevamo entrare in fabbrica, si è trasformato in uno strumento per sognare, da dare in mano a una comunità. Si è scelto di dare spazio ai sogni delle protagoniste, perché potesse esprimersi un sogno attraverso il cinema: bloccare la produzione per cambiare le cose. Il film ha la precisa volontà di far sognare lavoratori e spettatori, a cui spero arrivi sempre di più, perché accende una speranza, non si concentra sullo svilimento, ma sulla capacità di dare una forma a quella rabbia che le protagoniste sentono per aver subito ingiustizia.
Cosa porta via con sé dei luoghi che ha documentato?
Quello che mi accompagna sempre sono i ricordi del viaggio, le relazioni che rimangono profondamente dentro. Mi porto la voglia di mantenere vive quelle relazioni, il che è molto difficile, data la lontananza, le difficoltà linguistiche. Mi porto il senso di colpa di non aver ancora restituito il film alle protagoniste con una proiezione e spero presto succederà. Mi dispiace non aver ancora restituito, anche in termini economici, un pensiero per le protagoniste e spero di farlo presto. Il ricordo di quelle relazioni ti dà forza; vedere come attraverso un progetto possono anche cambiare le prospettive di protagonisti e lavoratori, anche quelli che non si vedono e che hanno accompagnato un anno di presenza in Vietnam, un anno di vita. Tutti coloro che hanno partecipato mi hanno insegnato qualcosa e credo che a tutti coloro che hanno partecipato sia arrivato qualcosa di questo lavoro. Questo è il bello di fare film-documentario, l’esperienza di incrociare vite e di condividere un percorso di progetto che diventa scambio autentico, permette di migliorare la tua vita stessa e quella degli altri, attraverso un cammino reciprocamente auto-formativo e formativo, pedagogico, senza la brutalità che spesso connota il film di finzione, le dinamiche di fiction governate da regole di mercato. Questo porta degli svantaggi perché il documentario richiede tempi molto più lenti, più lunghi, ma consente di vivere esperienze meravigliose e importanti. Però siamo più poveri!
Un progetto che sogna di realizzare?
Prossimi progetti sulle montagne. Spero di fare un bel lavoro su territori che sono molto vicini a noi, ma che non conosciamo per niente e ci sembrano mondi molto lontani.
Grazie.
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Qui sotto troverete i vari link per accedere alla visione di Nimble fingers:
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