Indagare un mondo dove nessuno riesce più a trovare le chiavi per accedervi. Ricercare, amare quel mondo incondizionatamente, cercare le vie per riaprire le strade e scrutare quel mondo serrato da troppo tempo ed essere scrutati da ciò che ancora l’altro riesce a sentire.
Rieducare a vedere, sentire, parlare, dialogare: rieducare all’altro, questo sembra lo scopo di Herzog, che attraverso il cinema compone un film ipotizzando lo spettatore come un sordo-cieco. Lo spettatore, coinvolto dalle atmosfere che Herzog crea, al confine tra la realtà e l’immaginazione, sente inevitabilmente un sentimento di empatia con i protagonisti – ma allo stesso tempo tenterà di fuggire da questa tremenda sensazione – che difficilmente riuscirà ad intendere.
La frustrazione dell’incomunicabilità tra questi mondi così vicini e allo stesso tempo così lontani – “Quando le nostre mani si lasciano, è come se fossimo distanti mille miglia” -, la distanza abissale che è sempre più difficile da colmare. Per un attimo, l’ultima sequenza riesce a restituire una forma di comunicazione con uno dei protagonisti. Il pianosequenza su Heinrich che abbraccia l’albero restituisce, seppur minimamente, l’intimità che sembra irrecuperabile per lo spettatore, se non fosse per quest’ultimo lungo gesto d’amore.
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