La storia di Parsifal Reparato, antropologo e filmmaker italiano, parla di Passione per la ricerca, amore per la vita e tanto coraggio. – See more at: Stella Nova – La società del merito
Laureato a pieni voti in antropologia, presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, prosegue la sua formazione professionale nel cinema e nella fotografia. . La sua ambizione è quella di coniugare le arti visive con l’Antropologia, gettare uno sguardo approfondito attraverso l’esperienza, focalizzando la sua ricerca sulle tematiche sociali. Attualmente Parsifal si trova in Vietnam e sta girando “Nimble Fingers”, un film-documentario che approfondisce la tematica del lavoro e i diritti dei lavoratori. Il Lungometraggio nasce da un’esperienza personale. Conseguiti con successo i suoi studi, Parsifal viene assunto, dopo selettivi colloqui, nel management una grande multinazionale. Un ruolo di prestigio, ben retribuito e che lo avrebbe portato a fare carriera all’interno dell’azienda; ma Parsifal si sente infelice, insofferente e lontano dai suoi sogni. Compie un viaggio in Vietnam e l’impatto con quella cultura è subito forte. Affascinato da quel paesaggio in trasformazione, realizza di poter intrecciare la passione per quel paese con le sue esperienze.
Che cos’è Nimble Fingers?
Il film parla di Bay, una giovane operaia vietnamita che lavora in una fabbrica straniera, un polo industriale costruito dai giapponesi, e attraverso di lei racconta di come la nostra generazione trovi difficoltà a costruirsi un futuro. “Nimble Fingers” (dita agili), prende il nome da uno stereotipo femminile che vede le donne come soggetti più adatti al lavoro duro delle fabbriche, in quanto hanno dita agili e veloci, sono meno ribelli e più perseveranti.
Cosa ti ha spinto ad effettuare questo documentario in Vietnam?
Ho scelto il Vietnam come simbolo del nostro tempo. Il passaggio da un economia socialista ad un “economia socialista orientata al mercato. Quest’ultima ha determinato il definitivo abbandono del sistema economico fondato sulVAC, tanto voluto da Ho Chi Minh, bastato sull’agricoltura di autosussistenza, in favore di un apertura al mercato globale e ad una massiccia industrializzazione.
In che modo sono legati un giovane lavoratore italiano e un giovane vietnamita?
Ciò che lega un giovane lavoratore vietnamita e un italiano è la condizione di lavoratore subordinato. Il Vietnam sta vivendo ora la sua industrializzazione, ma a differenza dell’Italia, dove lo sviluppo industriale ha determinato la formazione di una classe operaia, e grazie al conflitto tra padroni e lavoratori è riuscito ad apportare benessere, il nuovo modello di capitalismo esportato in questo Paese ha annientato ogni forma di conflitto, e questo non porta più a nessun arricchimento; mentre le nostre fabbriche esportano all’estero nuovi modelli lavorativi ed economici, anche noi perdiamo i diritti e ci impoveriamo.
A quali contraddizioni assistiamo oggi in Vietnam?
Le contraddizioni attuali emergono dal forte contrasto tra il vecchio sistema e l’introduzione di un nuovo modello economico. Le conquiste ottenute nel periodo socialista si vanno perdendo ed entrati ormai in un economia di mercato, in cui è necessario attirare i grandi capitali, tali diritti è difficile mantenerli. I giovani sono disorientati tra la nostalgia di un tempo passato e lo shock di uno stravolgimento radicale dei valori tradizionali.
L’arrivo del capitalismo in un paese con tradizioni socialiste e rivoluzionarie, che dinamiche ha comportato rispetto ad altri paesi che hanno subito processi simili?
Ciò che emerge dalla mia ricerca è che oggi paesi in via di sviluppo come il Vietnam, non seguono processi evolutivi, come ad esempio in Corea o in Taiwan, dove il capitalismo ha apportato ricchezza e strutture. Qui non si importano innovazione e formazione di una classe dirigente, ma solo sfruttamento. Un operaio medio in Vietnam guadagna circa 150/160 dollari al mese, e solo di affitto, per una stanza di circa 10 mq ne paga 80.
In Italia si discute molto di quote rosa e violenza sulle donne; dall’occidente all’oriente le donne rimangono soggetti sociali deboli e con meno diritti?
Si sicuramente. In Vietnam durante la resistenza la donna era più emancipata ed aveva un ruolo di primo piano, anche se allo stesso tempo la figura femminile risente in tutta questa parte d Oriente della cultura confuciana , ha quindi un ruolo sociale più debole e subalterno all’uomo.
Come si coniuga l’ aspetto antropologico della ricerca con le arti visive? la telecamera è un utile strumento di indagine etnografica?
Si la telecamera è un utile strumento di indagine. Una volta trovato, colui che in antropologia chiamiamo “l’informatore chiave”, e dopo aver instaurato un rapporto basato non solo sull’informazione ma anche sull’emotività, si riesce ad entrare in contatto con la cultura che si vuole indagare. In seguito lo strumento cinematografico mi è servito per prendere appunti e per sviscerare il rapporto con Bay, per farle capire quanto fosse essenziale il suo ruolo per la riuscita del progetto, è stato un percorso creativo e condiviso. La telecamera non serve a testimoniare la realtà assoluta ma la verità di quell’incontro , la conoscenza è una condizione soggettiva, c’è sempre l’impronta autoriale nel racconto.
La narrazione come strumento di indagine è terapeutico?
Il fatto di poterti raccontare è di per se terapeutico, è un lavoro su se stessi attraverso il confronto. Anche io mi sono messo in gioco diventando un personaggio del film. Ci siamo sforzati entrambi di tirare fuori i nostri pensieri, le nostre conclusioni e, a lavoro compiuto, ci siamo sentiti felici per essere riusciti ad esprimere idee, che senza questo sforzo comune, non sarebbero mai emerse.
In una prospettiva antropologica, come si è sviluppato il confronto fra il se con l’altro?
Il confronto tra il se e l’altro è avvenuto nella ricerca di qualcosa che fosse complementare a me, un linguaggio comune dall’altra parte del mondo e, al di la della ragione, mi sono ritrovato emotivamente in Bay. Ho lasciato scorrere il rapporto conoscitivo in modo molto libero e spontaneo, solo alla fine dopo aver raccolto i dati ho creato una “cornice scientifica” intorno al racconto, cosa necessaria per la creazione di un’opera.
Da quali figure professionali è formato il team? Riesci a finanziarti con il crowdfunding?
Ho svolto la ricerca sul campo anche grazie al supporto dell’equipe di ricerca coordinata dal professore Pietro Masina dell’Università l’Orientale di Napoli e la professoressa Michela Cerimele – tra l’altro è tra gli autori del libro “Fiat nuova Panda schiavi in mano”. Fino a maggio la gran parte delle riprese le ho portate avanti da solo, poi grazie al crowdfunding mi sono potuto permettere una piccola troupe cinematografica. Nella comunicazione spesso sono stati fondamentali gli studenti del dipartimento di lingua italiana dell’Università di Hanoi che mi hanno assistito con molta passione. Chiunque abbia scelto di sostenere il progetto, ha scelto di investire i propri soldi nella diffusione di una cultura cinematografica critica, che parta dal basso e fuori dalle logiche del mainstream.
Cosa ti aspetti da questo lavoro? quali sono i tuoi obiettivi?
Il mio primo obiettivo è di portarlo a termine. Per il futuro mi auguro che il film abbia accesso a festival internazionali importanti e che qualche distributore si interessi a farlo girare. Oggi abbiamo bisogno di prendere consapevolezza di questi temi, stiamo perdendo diritti sul lavoro ogni giorno in Italia e in gran parte del mondo.
Il film parla di Bay, una giovane operaia vietnamita che lavora in una fabbrica straniera, un polo industriale costruito dai giapponesi, e attraverso di lei racconta di come la nostra generazione trovi difficoltà a costruirsi un futuro. “Nimble Fingers” (dita agili), prende il nome da uno stereotipo femminile che vede le donne come soggetti più adatti al lavoro duro delle fabbriche, in quanto hanno dita agili e veloci, sono meno ribelli e più perseveranti.
Cosa ti ha spinto ad effettuare questo documentario in Vietnam?
Ho scelto il Vietnam come simbolo del nostro tempo. Il passaggio da un economia socialista ad un “economia socialista orientata al mercato. Quest’ultima ha determinato il definitivo abbandono del sistema economico fondato sulVAC, tanto voluto da Ho Chi Minh, bastato sull’agricoltura di autosussistenza, in favore di un apertura al mercato globale e ad una massiccia industrializzazione.
In che modo sono legati un giovane lavoratore italiano e un giovane vietnamita?
Ciò che lega un giovane lavoratore vietnamita e un italiano è la condizione di lavoratore subordinato. Il Vietnam sta vivendo ora la sua industrializzazione, ma a differenza dell’Italia, dove lo sviluppo industriale ha determinato la formazione di una classe operaia, e grazie al conflitto tra padroni e lavoratori è riuscito ad apportare benessere, il nuovo modello di capitalismo esportato in questo Paese ha annientato ogni forma di conflitto, e questo non porta più a nessun arricchimento; mentre le nostre fabbriche esportano all’estero nuovi modelli lavorativi ed economici, anche noi perdiamo i diritti e ci impoveriamo.
A quali contraddizioni assistiamo oggi in Vietnam?
Le contraddizioni attuali emergono dal forte contrasto tra il vecchio sistema e l’introduzione di un nuovo modello economico. Le conquiste ottenute nel periodo socialista si vanno perdendo ed entrati ormai in un economia di mercato, in cui è necessario attirare i grandi capitali, tali diritti è difficile mantenerli. I giovani sono disorientati tra la nostalgia di un tempo passato e lo shock di uno stravolgimento radicale dei valori tradizionali.
L’arrivo del capitalismo in un paese con tradizioni socialiste e rivoluzionarie, che dinamiche ha comportato rispetto ad altri paesi che hanno subito processi simili?
Ciò che emerge dalla mia ricerca è che oggi paesi in via di sviluppo come il Vietnam, non seguono processi evolutivi, come ad esempio in Corea o in Taiwan, dove il capitalismo ha apportato ricchezza e strutture. Qui non si importano innovazione e formazione di una classe dirigente, ma solo sfruttamento. Un operaio medio in Vietnam guadagna circa 150/160 dollari al mese, e solo di affitto, per una stanza di circa 10 mq ne paga 80.
In Italia si discute molto di quote rosa e violenza sulle donne; dall’occidente all’oriente le donne rimangono soggetti sociali deboli e con meno diritti?
Si sicuramente. In Vietnam durante la resistenza la donna era più emancipata ed aveva un ruolo di primo piano, anche se allo stesso tempo la figura femminile risente in tutta questa parte d Oriente della cultura confuciana , ha quindi un ruolo sociale più debole e subalterno all’uomo.
Come si coniuga l’ aspetto antropologico della ricerca con le arti visive? la telecamera è un utile strumento di indagine etnografica?
Si la telecamera è un utile strumento di indagine. Una volta trovato, colui che in antropologia chiamiamo “l’informatore chiave”, e dopo aver instaurato un rapporto basato non solo sull’informazione ma anche sull’emotività, si riesce ad entrare in contatto con la cultura che si vuole indagare. In seguito lo strumento cinematografico mi è servito per prendere appunti e per sviscerare il rapporto con Bay, per farle capire quanto fosse essenziale il suo ruolo per la riuscita del progetto, è stato un percorso creativo e condiviso. La telecamera non serve a testimoniare la realtà assoluta ma la verità di quell’incontro , la conoscenza è una condizione soggettiva, c’è sempre l’impronta autoriale nel racconto.
La narrazione come strumento di indagine è terapeutico?
Il fatto di poterti raccontare è di per se terapeutico, è un lavoro su se stessi attraverso il confronto. Anche io mi sono messo in gioco diventando un personaggio del film. Ci siamo sforzati entrambi di tirare fuori i nostri pensieri, le nostre conclusioni e, a lavoro compiuto, ci siamo sentiti felici per essere riusciti ad esprimere idee, che senza questo sforzo comune, non sarebbero mai emerse.
In una prospettiva antropologica, come si è sviluppato il confronto fra il se con l’altro?
Il confronto tra il se e l’altro è avvenuto nella ricerca di qualcosa che fosse complementare a me, un linguaggio comune dall’altra parte del mondo e, al di la della ragione, mi sono ritrovato emotivamente in Bay. Ho lasciato scorrere il rapporto conoscitivo in modo molto libero e spontaneo, solo alla fine dopo aver raccolto i dati ho creato una “cornice scientifica” intorno al racconto, cosa necessaria per la creazione di un’opera.
Da quali figure professionali è formato il team? Riesci a finanziarti con il crowdfunding?
Ho svolto la ricerca sul campo anche grazie al supporto dell’equipe di ricerca coordinata dal professore Pietro Masina dell’Università l’Orientale di Napoli e la professoressa Michela Cerimele – tra l’altro è tra gli autori del libro “Fiat nuova Panda schiavi in mano”. Fino a maggio la gran parte delle riprese le ho portate avanti da solo, poi grazie al crowdfunding mi sono potuto permettere una piccola troupe cinematografica. Nella comunicazione spesso sono stati fondamentali gli studenti del dipartimento di lingua italiana dell’Università di Hanoi che mi hanno assistito con molta passione. Chiunque abbia scelto di sostenere il progetto, ha scelto di investire i propri soldi nella diffusione di una cultura cinematografica critica, che parta dal basso e fuori dalle logiche del mainstream.
Cosa ti aspetti da questo lavoro? quali sono i tuoi obiettivi?
Il mio primo obiettivo è di portarlo a termine. Per il futuro mi auguro che il film abbia accesso a festival internazionali importanti e che qualche distributore si interessi a farlo girare. Oggi abbiamo bisogno di prendere consapevolezza di questi temi, stiamo perdendo diritti sul lavoro ogni giorno in Italia e in gran parte del mondo.
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